Santuario dell’apparizione della Madonna a Gallivaggio

Guido Scaramellini

 

 Da oltre mezzo millennio il santuario della Madonna di Gallivaggio è il centro religioso dell’intera Valchiavenna: un santuario di pietra, dentro e soprattutto fuori, in un ambiente tra i più inospitali della zona, racchiuso tra rocce strapiombanti e franate e lambito da tre corsi d’acqua, che basta un acquazzone per renderli minacciosi. Siamo in Valle, com’era detta per antonomasia nei secoli passati, o in val San Giacomo, che oggi si preferisce chiamare valle Spluga, una delle tre vallate che compongono la Valchiavenna, a nord del lago di Como.

L’apparizione

Qui due ragazze che stavano riposandosi sotto un albero dopo aver raccolto castagne, le ultime della valle, annunciarono la comparsa della Madonna all’alba di mercoledì 10 ottobre 1492: posata con i piedi su un masso, la videro dapprima come una bambina di luce, poi farsi una signora dal portamento nobilissimo, il capo coperto da un velo bianco che le scendeva sulle spalle, attorno una teoria di angeli come farfalle in volo. "Io vado in ogni luogo per la conversione dei peccatori", disse la signora, dopo aver invitato le ragazze a non avere paura, rivelando di essere la Madonna. Poi alzò la veste anch’essa bianca, mostrando le ginocchia e le mani sanguinanti e disse: " […] mio figlio, Signore vostro, poco tempo fa, volendo distruggere il mondo, mandò, come sapete, una fiamma minacciosa [cioè una cometa, che effettivamente comparve all’inizio dell’anno precedente], ed io intervenendo andavo gridando: Misericordia, misericordia, misericordia. […] Dite che, se i peccatori non si convertiranno e non osserveranno con maggiore puntualità i giorni festivi, certamente la punizione di mio figlio, loro Signore, non tarderà ad arrivare. Dite pure che […] inizino a osservare il giorno festivo dalle 15 del sabato".

Questi alcuni passaggi del colloquio secondo il racconto dell’apparizione, come ci è stato conservato in copia seicentesca, essendo andata persa la pergamena originaria.

Se c’era una valle in cui, per il tipo di attività, il trasporto delle merci, si doveva spesso lavorare anche alla festa, quella era la val San Giacomo, soprattutto a partire dal 1473, quando la via dello Spluga, divenuta più sicura e agevole anche per il nuovo tracciato lungo la via Mala sul versante nord, ebbe la prevalenza su quella di Bregaglia, divenendo il principale itinerario alpino della Lombardia. Si svilupparono allora i Porti, un’associazione di Comuni per il trasporto in monopolio delle merci tra Chiavenna e Coira. Un Porto era costituito dal Comune allora unico di valle, che a turno affidava il lavoro a chi era nella lista dei trasportatori; gli altri, attivi oltre il valico, spettavano a comuni della repubblica delle tre Leghe o Grigioni.

Ma questi ultimi erano anche fonte di preoccupazioni, in quanto nel 1486 e ’87 avevano fatto due minacciose irruzioni nei nostri territori per saggiarne le capacità di difesa, che trovarono assai deboli, andandosene solo dopo aver fatto bottino la prima volta e aver ottenuto un indennizzo la seconda. Per questo Ludovico Maria Sforza detto il Moro, che di fatto governava il ducato di Milano, a cui la valle era unita da un secolo e mezzo, volle che Chiavenna fosse cinta di mura, le quali nel 1492 erano ormai ultimate nel grosso del lavoro.

Contemporaneamente si registra nelle Alpi, per motivi soprattutto climatici, un aumento della popolazione residente, tanto che molti alpeggi divennero permanentemente abitati. Sorgono allora anche nelle terre alte le prime chiese, mentre nel XII secolo l’unica in valle era quella di San Giacomo all’imbocco sud, alla quale nel 1327 era seguito, poco distante, il santuario di San Guglielmo sul luogo dov’era vissuto e morto un eremita.

Tuttavia era pur sempre una vita di sussistenza con quel poco che la terra poteva dare tra i lunghi inverni e, nonostante gli arrotondamenti grazie al trasporto delle merci, molti erano costretti a emigrare in cerca di lavoro, La vita era difficile anche per le frequenti alluvioni che seminavano distruzione e morte: nella seconda metà del Ottocento se ne ricordano quattro nell’arco di poco più che vent’anni. Di tale difficile situazione si erano resi conto i dominatori che alla valle concesero speciali privilegi con una certa autonomia.

 

I fatti miracolosi

L’evento miracoloso attirò subito devoti da ogni parte della valle e anche dalle zone confinanti, che cominciarono a segnalare fatti prodigiosi. Un primo elenco con ventinove miracoli è riportato nella copia seicentesca in calce al racconto dell’apparizione. Poi gli storici del santuario nel Sei e Settecento, tutti preti, ne aggiornarono via via la lista, superando i duecento.

Tra i miracolati c’è anche la madre di una delle ragazze dell’apparizione: paralitica da oltre cinque anni, raccomandandosi alla Madonna di Gallivaggio guarì. Due fatti sono collegati alla costruzione della chiesa e della casa annessa. Mancavano quattro ferri di contrasto delle longarine per i due archi del coro della chiesa e comparvero sul posto. Quanto alla casa, due travi erano risultate troppo corte e improvvisamente si allungarono ancor più del necessario. Un capomastro della Valmaggia, Filippo Cristoffanino, affetto da febbre viscerale con vomito ed emicrania, promise alla Madonna tre giornate di lavoro gratuito e risanò. Qualcosa di simile toccò nel 1706 al falegname valmaggese Giuseppe Troni, che probabilmente stava costruendo i confessionali. Un mastro della stessa terra, Giovanni Guerra, durante la costruzione del campanile precipitò dall’altezza di oltre venti metri e, invocando la Madonna, riportò solo lievi ferite. Non mancano casi di indemoniate che furono liberate.

Altri miracolati abitavano nelle terre di emigrazione: da Palermo a Napoli e a Venezia, o nei Grigioni, oltre che in Valchiavenna. Lo stesso centro di Chiavenna, scampato all’esondazione del fiume Mera in seguito alla frana che il 4 settembre 1618 aveva sepolto Piuro con il suo migliaio di abitanti, offrì al santuario, quattro giorni dopo il fatto, dodici grosse torce di cera bianca e una notevole somma di denaro. Altre volte furono le comunità valchiavennasche a ottenere, soprattutto a cavallo tra Sei e Settecento, la pioggia o la sua cessazione.

Alcuni miracoli si riferiscono ai traffici commerciali, allora intensi attraverso lo Spluga. Frane della montagna su Vho nel 1691 non provocarono danni ai cavallanti che passavano dalla strada, anzi i massi furono usati per costruire il porticato della collegiata di Chiavenna.

L’elenco completo, stando ai fatti documentati, sarebbe troppo lungo. D’altra parte già nel 1686 – come scrive il Macolino – molte erano le tabelle votive appese alle pareti del santuario e andavano sempre aumentando, tanto che nel 1927, ma soprattutto nel 1931 saranno fatte levare e purtroppo quasi tutte sono andate disperse.

C’è anche memoria di castighi. Con un tremendo dolore ai piedi se la cavò un operaio che nel 1630, nel sistemare la nicchia dell’altare al centro per il gruppo statuario, mise i piedi sul sasso dell’apparizione e solo quando si decise a toglierli il dolore cessò.

Un altro "castigo" riguarda le non infrequenti liti che accadevano durante le funzioni religiose. Era il 28 maggio 1693 e, secondo consuetudine, gli abitanti della valle erano radunati nella chiesa di San Giacomo in attesa di partire in processione verso il vicino santuario di San Guglielmo con la reliquia dell’eremita. Ma, mentre stavano ancora in chiesa, riemerse l’annosa questione delle precedenze tra i vari paesi della valle. A farne le spese fu la croce di Gallivaggio che ne uscì ammaccata. Solo l’intervento di un religioso riuscì a mettere pace, nonostante un rappresentante di Isola non volesse darsi per vinto. E – al dire del canonico Macolino – questi fu punito perché, dopo grave malattia, morì.

 

Le tre chiese

Poco dopo l’apparizione si costruì "una Capella, ò sia piccola Chiesiuola", come scrive ancora il Macolino agli inizi del Settecento, racchiudendovi il masso sul quale la Madonna fu vista posare i piedi. E a fine maggio 1493 fu benedetta dall’arciprete di Chiavenna Giovan Battista Pestalozzi. Ma già nel 1510 si cominciò la costruzione di un edificio più capiente, con quattro altari, dato il notevole afflusso di fedeli, e cinque anni dopo compare il primo rettore del santuario. Risultando anche questa seconda chiesa troppo piccola, nel 1598 si decise di erigerne dalle fondamenta una terza, che è l’attuale. Insieme ai fedeli contribuì il frate domenicano Feliciano Ninguarda, vescovo di Como originario di Morbegno, che inviò 200 scudi imperiali di Milano.

Esternamente l’edificio presenta un’architettura semplice e armoniosa; dalla facciata è leggibile lo spazio interno a tre navate, di cui quella centrale larga circa il doppio delle laterali. Non è difficile cogliere l’influenza dei decreti di san Carlo Borromeo, confermati dal documento del 1620 di Federico Borromeo, che tendevano a chiese esternamente non appesantite da troppe decorazioni, mentre la ricchezza decorativa poteva riguardare l’interno. Unica concessione, fin dall’origine, è la Madonna con bambino affrescata sul finire del Cinquecento all’esterno della parete laterale sinistra, verso il cimitero, in modo che la potessero vedere quelli che passavano dalla strada sottostante.

I lavori murari furono affidati a mastri ticinesi, come quelli di molte altre case e chiese dell’epoca in zona. A un ticinese di Cureglia, Domenico Caresana, si devono gli affreschi del 1605-1606 nel presbiterio e nelle due cappelle laterali. La volta a botte presenta scene della vita di Maria: a sinistra la Natività della Madonna e la sua Presentazione al tempio; a destra l’Annunciazione e verso il fondo lo Sposalizio con Giuseppe. Nel grande ovale al centro è l’Assunzione tra angeli, di cui uno in basso regge un lungo cartiglio con il versetto che segue l’inno delle lodi per la festa dell’Assunzione, peraltro malamente integrato durante i restauri: "Exaltata est s[uper] choros angelor[um] ad coelestia reg[na]". Sulle pareti sottostanti, in ampi rettangoli sono rappresentati a sinistra la Natività di Gesù e sulla parete di fronte l’Adorazione dei magi. In questa scena spicca tra tutti la grande figura all’estrema destra, che ha lo sguardo rivolto allo spettatore: forse il ritratto del pittore o quello del committente?

Il sottarco trionfale è decorato a sinistra dal veggente Bala, dalle Sibille Tiburtina e Frigia e dal profeta Geremia, mentre sulla parete di fondo troneggiano in piedi entro archi i profeti Isaia e Tobia. Completano la serie le Sibille Samia e Chimica attorno alla finestra trilobata della stessa parete.

Quanto alle cappelle laterali, in quella di sinistra è affrescata nel riquadro di fondo la Strage degli innocenti, affiancata nella parete di sinistra dalla scena dell’angelo che avverte Giuseppe in sonno di fuggire in Egitto e di fronte dalla Fuga in Egitto. Sulla volta a botte sono la Circoncisione e la Presentazione al tempio con il Padre eterno al centro, mentre nel sottarco sono dipinte le sante Apollonia e Caterina da Siena. Allo stesso Caresana è assegnata anche la decorazione della cappella di destra con l’Annunciazione sull’altare, la Visita di Maria a Elisabetta nella parete di sinistra e di fronte una mediocre Natività, probabilmente opera di aiuti, mentre sulla volta a botte sono la Presentazione al tempio, la Disputa tra i dottori e al centro la Gloria di Maria.

Il nome del pittore è affrescato nel presbiterio, precisamente nell’angolo inferiore sinistro della grande scena raffigurante la nascita di Gesù. Le opere gli furono commissionate da Giovan Pietro Vertemate di Piuro, che fornì anche l’ancona in legno intagliato e dorato, la cui pala è opera di Paolo Camillo Landriani detto il Duchino (1606). Il nome del Vertemate compare sia su questa tela, sia, affrescata, sullo sguancio della finestra trilobata della parete di fondo.

La chiesa fu consacrata da Filippo Archinti, vescovo di Como, il 19 gennaio 1615, come attesta una lapide già murata in facciata, oggi in sacrestia. Aveva l’altare dell’apparizione al centro con una nicchia per il gruppo statuario della Madonna con il bambino e le due ragazze. Il pavimento era in cotto e in facciata c’erano e ci sono tuttora due finestre, mentre il rosone centrale fu tamponato nel 1759 quando fu addossato alla controfacciata il grande organo, donato nel 1673, come si legge nell’ovale al centro della tribuna, dagli emigranti a Palermo e collocato inizialmente a sinistra della navata centrale.

Notevole fu l’apporto degli emigranti. Quelli che lavoravano al porto di Como offrirono il grande crocefisso in legno dipinto al centro dell’arco trionfale, come si legge ai lati della longarina inscatolata. Nel 1664, da un masso caduto dal monte incombente sul santuario quattro anni prima si ricavò il portale maggiore, alla cui sommità si posero la statua in marmo bianco della Madonna e sui timpani spezzati quelle delle due ragazze, eseguite ancora dalle "busole de faticanti della riva de Como de la vale S. Giacomo", come si legge nella lapide già murata in facciata, oggi in sacrestia.

Nel 1694 fu aggiunta a sinistra della parete di fondo la sacrestia a spese della cassetta di Roma, come dice una lapide sopra il portalino. A questi emigranti, ma anche a quelli dimoranti a Palermo e Venezia, si devono argenteria, paramenti e stendardi, come quello appeso nella navata di destra, offerto dai benefattori di Roma a metà Settecento, mentre quello posto nella navata di sinistra, che in una faccia reca la scena dell’apparizione, fu eseguito nel 1781 a Milano a spese del santuario (100 gigliati).

 

Il santuario nel Settecento

Mancava un campanile adeguato, essendoci precedentemente solo un pilastro pericolante, a fine Seicento, sopra il tetto della chiesa con due archi per altrettante campanelle. Si iniziò perciò nel 1729 la costruzione di una vera e propria torre campanaria sul lato opposto del piazzale, di fronte alla facciata. Con i suoi 52 metri la si volle la più alta della Valchiavenna affinché potesse essere anche vista da chi transitava dalla sottostante strada dello Spluga. Sull’architrave dell’ingresso è documentato con un’epigrafe datata 1730 che gli emigranti fornirono le nuove campane: quelli di Roma una di 100 pesi, quelli di Palermo una di 70. Nel 1769 se ne aggiunsero altre due, finanziate in gran parte dalle cassette degli emigranti insieme e l’altra dai devoti. Nella seconda metà dell’Ottocento le due campane più antiche saranno rifuse dalla ditta Giorgio Pruneri di Grosio e un secolo dopo rifatte tutt’e quattro con l’aggiunta di una quinta ad opera della ditta Filippi di Chiari.

Il 1741 è un anno di grandi innovazioni per il santuario, essendo stato rimosso dal centro della navata l’altare dell’apparizione, ritenuto ingombrante dai vescovi in visita pastorale fin dal 1668. Contemporaneamente si costruì l’attuale altare maggiore in marmo, sotto la cui mensa, allora in legno, fu trasportato il masso dell’apparizione. La cornice dell’ancona precedente fu addossata alla parete di fondo, mentre la pala fu appesa alla parete della navata sinistra. Un altro spostamento avverrà nel 1976, quando il granito sarà collocato sotto la nuova mensa avanzata.

Il 16 giugno 1742 il vescovo Paolo Cernuschi incoronò le statue seicentesche della Madonna e del bambino. Le corone d’oro furono inviate dal capitolo di San Pietro in Roma, grazie a un legato di un conte piacentino, ma almeno in parte esse furono pagate dall’amministrazione del santuario (oggi gli originali sono nel Tesoro di Chiavenna).

Meno di trent’anni dopo si costruì, simmetrico alla sacrestia, l’oratorio delle tre confraternite, istituite nel secolo precedente.

Il prete Guglielmo Cerletti, nativo di San Bernardo, donò nel 1784 un pregevole rilievo in pietra ollare per il portale a sinistra in facciata: raffigura il leggendario racconto biblico di Ester davanti al marito e re Assuero, da cui ottenne la revoca del decreto di sterminio contro i Giudei. La scelta del soggetto è motivata dal riferimento alla intercessione di Maria presso Dio.

Alla sommità della facciata, all’incrocio degli spioventi del tetto in pietra locale, è stata affrescata nel Seicento l’apparizione con ritratto del devoto committente in un esagono in basso.

Un altro importante dono di un’opera settecentesca sarà fatto da un privato nel 1872: la pala, esposta nella navata destra e proveniente con molta probabilità dall’ex convento dei cappuccini di Chiavenna. Fu eseguita nel 1739 a olio su tela da Cesare Ligari di Sondrio e rappresenta il crocefisso tra cinque frati francescani.

 

Tra Otto e Novecento

La cappella sulla strada, già esistente nel 1537, ricostruita vicino nel 1699, sepolta in seguito a variazioni di tracciato della strada, fu ricostruita nel 1853 su progetto dell’arch. Giuseppe Vanossi di Chiavenna. Quanto al santuario, in vista del quarto centenario dell’apparizione, nel 1884 fu varato un vasto piano di decorazione delle navate che, a differenza del presbiterio e delle cappelle, erano spoglie, coperte solo dagli ex voto. Fu incaricato il pittore Luigi Tagliaferri di Pagnona (Lecco), che nella volta centrale raffigurò in un grande ovale l’Incoronazione della Madonna e lateralmente gli evangelisti in tondi, intervallati dalla illustrazione delle litanie mariane nelle vele e da citazioni delle scritture nelle lunette sottostanti. Nelle navate laterali sono i santi Antonio abate, Giuseppe con il bambino e Francesco d’Assisi a sinistra, oltre al battesimo di Cristo sopra il fonte, i santi Abbondio, patrono della diocesi, Anna con la Madonna e Luigi Gonzaga a destra. Sei cariatidi in stucco a bassorilievo coronano le colonne in pietra locale verso la navata centrale.

Nel Novecento un’opera rilevante fu la costruzione nel 1936 della scala santa con 72 gradini, quanti gli anni presunti della vita terrena di Maria. Fu progettata dal pittore Ponziano Togni in collaborazione con lo scultore Pietro Tavani di Como, che realizzò 18 formelle in bronzo con episodi della vita della Madonna e un grande crocefisso in alto, sotto il quale è un pannello del beato Luigi Guanella, figlio di questa valle, tra i suoi poveri.

Al 3 settembre 1942 data la concessione dell’ufficiatura e della Messa propria per la Madonna della misericordia di Gallivaggio e al 25 novembre seguente l’aggregazione del santuario alla basilica di Santa Maria in Roma. Recentemente, il 16 novembre 2000, il vescovo di Como mons. Alessandro Maggiolini ha dichiarato la Madonna della misericordia protettrice della Valchiavenna.

Già visitato, a partire dal 1615, dai vescovi di Como durante le loro visite pastorali, nel Novecento si prostrarono davanti alla Madonna della misericordia i cardinali arcivescovi di Milano: Ildefondo Schuster nel 1935, Giovan Battista Montini, che a Gallivaggio fu per ben sette volte prima di diventare papa Paolo VI, e ultimamente, nel 1989, Carlo Maria Martini. Ma mi piace, a questo punto, ricordare le innumerevoli anonime persone, che nel silenzio del santuario tra i sassi si è recata a pregare la Madonna, trovando conforto e consolazione per tirare avanti.

Al santuario e alla sua Madonna è stata dedicata una decina di stampe impresse tra il Sette e l’Ottocento a Londra, Augusta, Zurigo, Parigi, Milano e Roma, a dimostrazione del notevole passaggio internazionale lungo la strada dello Spluga e della devozione alla Madonna.

Una quindicina sono i dipinti dell’apparizione che ornano le case della Valchiavenna, ma anche di Gravedona e di Maggia in canton Ticino, dove la devozione fu evidentemente portata dai mastri che tra Cinque e Settecento qui lavorarono numerosi.

In tal modo i devoti hanno voluto tenersi vicino l’effigie della Madonna della misericordia, che all’alba di un giorno d’ottobre scelse uno dei posti più inospitali della val San Giacomo per consegnare a due umili ragazze del luogo il suo messaggio di esortazione ai peccatori e di misericordia.

Le festività principali sono il 10 ottobre, anniversario dell’apparizione, e il 26 luglio per Sant’Anna, ma sono molti gli appuntamenti nell’anno, a cominciare da quelli del Consiglio pastorale della Valchiavenna.

Il santuario, retto dal 1515, data del primo rettore documentato, dal clero diocesano, è dal 1990 officiato dai Servi del cuore immacolato di Maria con la celebrazione quotidiana della Messa.

  

Per informazioni: tel. 0343 32193.

Bibliografia

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